Due femminicidi in una settimana. Non possiamo restare in silenzio
- Roxana Hernandez
- 4 apr
- Tempo di lettura: 2 min
di Roxana Hernandez

Questa settimana è stata segnata da un silenzio che urla. Due femminicidi, a Roma e a Messina, ci ricordano ancora una volta quanto sia fragile la libertà delle donne in questo Paese. Due giovani vite spezzate dalla violenza, due storie diverse ma tristemente unite da un destino comune: l’essere state abbandonate da una società che ancora oggi non sa prevenire, non sa ascoltare, non sa proteggere.
A Roma, una donna di trent’anni è stata ritrovata senza vita, abbandonata in una valigia nella periferia della capitale. Una scena che racconta l’orrore dell’ultimo gesto, ma che dovrebbe interrogarci su tutto ciò che è accaduto prima. Chi era questa donna? Cosa ha vissuto? Perché nessuno ha potuto intervenire?
A Messina, una ragazza di ventidue anni è stata uccisa dall’ex compagno dopo due anni di persecuzioni, minacce, segnalazioni. Il copione purtroppo lo conosciamo bene: una relazione malata, la denuncia che arriva, forse, ma resta lì, senza effetto, finché non è troppo tardi.
Non sono casi isolati. Non sono sfortune. Sono l’esito di un sistema che spesso scarica la responsabilità sulle vittime, che banalizza lo stalking, che non investe abbastanza in prevenzione, educazione, formazione delle forze dell’ordine, protezione.
Eppure, nel 2024, i numeri ci dicono qualcosa di apparentemente positivo: il numero dei femminicidi è in lieve calo. Ma basta questo per cantare vittoria? Possiamo davvero parlare di progresso se ogni settimana siamo costretti ad aggiungere nuovi nomi all’elenco delle vittime?
Io credo di no. Perché ogni femminicidio è una sconfitta collettiva. Perché dietro ogni statistica c’è un volto, una famiglia distrutta, una comunità sconvolta.
Il cambiamento parte anche da qui, dalle parole. Dal parlarne senza paura, dal rompere il silenzio, dal sostenere chi denuncia, dal creare una rete vera attorno a chi è in pericolo. Le donne devono sapere che non sono sole. Ma soprattutto devono sentirlo. Devono vedere che le istituzioni funzionano, che la legge le protegge, che la società non le giudica ma le abbraccia.
Questi due casi sono un pugno nello stomaco. Ma dobbiamo trasformare quel dolore in consapevolezza. Non possiamo permettere che la memoria di queste giovani donne svanisca. Devono diventare una vera una battaglia culturale, sociale e politica che riguarda tutti, uomini e donne, giovani e anziani, cittadini e istituzioni.
Non è solo un problema delle donne. È una questione che riguarda la civiltà di un intero popolo.
E oggi, guardandoci allo specchio, non possiamo essere fieri di ciò che vediamo.
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